Correre nel verde Voglia di bici: ciclismo e biciclette - Correre nel verde direttore responsabile Giorgio Gandini


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QUANDO LO SPORT ARRIVA A MIETERE VITTIME SI SCADE NELLA BARBARIE

L'ultimo saluto a Marco Pantani

Non è solitamente nella filosofia di “Correre nel verde” cavalcare la cronaca e le notizie in tono sensazionalistico, ma non è questo il caso di andare per il sottile, visto che si scrive all’indomani di quella che si può in tutti i sensi considerare una tragedia non solo umana, ma che travolge in pieno il mondo dello sport italiano ed internazionale.

Sono dunque l’emotività e la coscienza a farci parlare oggi, non semplicemente  - e come è comunque doveroso fare -  per ricordare un grandissimo campione di uno degli sport più antichi e nobili quale è il ciclismo, ma anche e soprattutto per fare qualche considerazione in merito alla situazione che fa da quadro a questi terribili avvenimenti.

Marco Pantani è stato indiscutibilmente un grande eroe per grandi e piccini nel momento in cui, con la sua espressione sofferente, tagliava i traguardi delle tappe del Tour de France e del Giro d’Italia, a partire dal 1994 per arrivare alla vittoria di entrambe queste competizioni nel 1998; ma Marco Pantani ha rappresentato anche e soprattutto un business per il mondo del ciclismo e dello sport in generale, oltre che per tutte le sfere ad essi connesse, comprese quella dei mass media e quella della pubblicità.

Non solo: Marco Pantani è diventato poi di colpo il capro espiatorio di un malcostume che ormai sembra essere un fenomeno dilagante ed inarrestabile nel mondo dello sport, il doping, e da quel momento in avanti si è assistito ad un fenomeno di silente e compatto abbandono nei suoi confronti da parte di quegli ambienti che lo avevano tanto osannato, perché personaggio ormai coperto da scandalo ed ombre, insomma, un ex-campione divenuto “scomodo”, proprio per la gran parte di coloro che si possono ritenere responsabili tanto del suo successo quanto forse in egual misura del suo declino.

Ed è allora questo uno degli aspetti che ci teniamo maggiormente a sottolineare dopo che una morte solitaria ed angosciosa ha colpito non solo un  mito delle “due ruote ecologiche”, ma – non dimentichiamolo - un ragazzo di 34 anni che era arrivato nella sua giovane vita ad assaporare in poco tempo il massimo del successo e della fama.

Il mondo del grande sport, parliamo di quello ai massimi livelli e non certo quello dei tifosi, il mondo caratterizzato dai grandi nomi e dai circuiti miliardari ha deciso all’indomani dello”scandalo doping” di lasciare da parte Marco Pantani, solo ieri suo prediletto pupillo, e di consegnarlo, dopo averlo innalzato agli onori dell’Olimpo, allo scorno ed al silenzio.

In queste vicende il nostro unico ruolo da esterni può essere quello di far riflettere su quanto la fama ed il successo possano divenire in certi contesti particolari fatali per chiunque, anche se si tratta in fondo di un ragazzo normale, di cui inevitabilmente si è spesso dimenticato l’aspetto più puramente umano per esaltare il “Pirata Pantani” i cui muscoli funzionavano come pistoni di un rombante motore spinto al massimo su per salite e scatti di velocità dalla forza di un magico carburante.

Ma sono purtroppo i suoi occhi sulle foto in prima pagina di riviste e quotidiani, commossi e pensierosi, che ci riportano anche oggi bruscamente ad una realtà che tutti conosciamo, ma che spesso e volentieri ci troviamo a voler dimenticare, ossia quella che porta sempre più lo sport, stavolta inteso in senso generale, a perdere quei connotati originari di sana competitività tra soggetti per trasformarsi in un fenomeno di costume e di massa, quest’ultima intesa nel senso più negativo del termine: non quindi quella massa di persone alle quali spontaneamente si infiamma l'animo per l’entusiasmo delle grandi imprese che fanno sognare, ma quella in balìa di un insieme di meccanismi di mercato e che si muove in maniera del tutto prevedibile, controllata senza troppi scrupoli.

È quindi quando lo sport miete vittime che non ci sentiamo più di parlarne in modo positivo, è quando il “sistema” che crea un mito non si vergogna o si preoccupa di abbandonarlo, è quando si perde di vista l’uomo perché assalito dall' apparentemente inspiegabile “male oscuro” (la forte depressione che ha avvolto l’animo di Pantani) che ci allontaniamo dallo spirito che ognuno di noi crede di veder esaltato in questi personaggi, è quando Marco Pantani muore solo nella stanza di un residence a causa di un cocktail di psicofarmaci e antidepressivi (che sia stato assunto in maniera cosciente per farla finita o in modo incontrollato per un eccesso di disperazione non fa differenza) che nessuno di noi può piangere con l’animo totalmente incolpevole.

Lasciamo quindi ad altri lo sforzo ormai inutile, a nostro parere, di fare illazioni su come si sia verificato tecnicamente il decesso, allontanandosi più o meno dalla realtà dei fatti, che magari mai conosceremo fino in fondo: prendiamo invece tutto l’onere di ribadire a gran voce che allo sport non servono i morti, mentre continua a scendere un’amara e consapevole lacrima carica di significato per la morte di un personaggio a cui eravamo davvero affezionati e per il lutto che coinvolge il mondo del ciclismo, uno sport che, nonostante tutto, non riusciamo a smettere di amare.

Alessandra Giordani

 

 

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